Prefazione

Nella mia famiglia, da quando ero bambina, il cibo è sempre stato conside-rato un elemento irrilevante. L'idea di mia madre era: si mangia perché va fatto, e va fatto nel modo più sano, rapido e indolore possibile. Le cose impor-tanti secondo lei erano sicuramente altre, e la sola idea che quello che si man-giava fosse troppo gustoso, impegnasse troppo tempo e stimolasse troppo i sensi le sembrava quasi osceno. Negli anni '60 credo fossimo l'unica famiglia a Milano a mangiare il pane integrale; i dolci sotto qualsiasi forma erano proibiti e solo in occasioni eccezionali io e mio fratello potevamo comperare dalla lattaia un cono di panna montata con una spolverata di cannella, che già considerava-mo una trasgressione. Le uniche caramelle ammesse in casa erano al rabarba-ro, chissà perché. Forse perché erano amare. La minestra o il passato di verdu-ra erano un dovere quotidiano, come le ore all'aria aperta anche nei mesi più freddi. Quella di mia madre era una forma di moralismo salutista quasi religio-so, anche se è sempre stata atea. Forse mio padre non la pensava esattamente allo stesso modo, ma si adattava pensando che era un modo sicuramente sano di vivere. Comunque lui si rifaceva ampiamente quando era fuori casa, il che succedeva molto spesso.

Potrebbe sembrare una vita d'inferno, ma non era poi così drammatica. Certo, quando vedevo i bomboloni rosa in panetteria o le mie amiche mangia-re ghiaccioli colorati veniva voglia anche a me, ma mi consolavo con il succo di tamarindo diluito in acqua ascoltando un disco (per completare il quadro, non avevamo la televisione!). Un bambino non mette in dubbio le azioni di una madre, soprattutto quando sono per il suo bene.

Forse sembrerà strano che arrivata, devo dire molto sana, all'età adulta, non mi sia avventata su tutto ciò che mi era stato proibito da piccola. In realtà avevo così assorbito quella disciplina che era diventata anche la mia, e non avevo nes-suna intenzione di negarla; entro certi limiti, però. Ho capito che ci vuole una misura in tutto, che disciplinarci troppo ci fa vivere in galera, e non avere alcuna disciplina ci danneggia.

Ci sono però state nella mia infanzia tre figure femminili molto importanti, stret-tamente legate al cibo e al "far da mangiare".

Una era Ginetta, moglie di Elio Vittorini, lo scrittore. Abitavamo in una casa a ballatoio, sulla darsena del Naviglio a Milano, di proprietà dei Vittorini e ristrut-turata da mio padre. Una parte dell'ultimo piano era abitata da noi e una parte da loro. lo li amavo come dei genitori, tanto che posso dire di aver passato i primi 8 anni della mia vita con una doppia famiglia. In quegli anni in rasa c'era un continuo viavai di intellettuali e artisti, che quasi ogni sera si trovavano dai Vittorini a cena. Nella stanza mia e di mio fratello c'era uno sportellino che dava sulla loro scala, in modo che potessimo chiamare se avevamo bisogno di qual-cosa. Ricordo che la sera stavo per ore con lo sportellino aperto ad ascoltare le conversazioni animate intorno al tavolo ovale da pranzo, e oltre alle parole anche i suoni della tavola, il tintinnìo delle posate, i commenti degli ospiti ai cibi che Ginetta aveva preparato. Questo mi dava una sensazione di sicurezza: immaginavo che finché tutti fossero rimasti seduti lì, niente di negativo poteva succedere, e tutto sarebbe rimasto stabile, tenuto insieme dalla forza che li attraeva ai loro piatti.

Ginetta passava gran parte del suo tempo a preparare pranzi e cene, anche se non mi sembrava che si divertisse o le piacesse particolarmente. Non com-mentava quello che faceva e neanche mi insegnava niente, ma si muoveva sicu-ra e tranquilla nella sua cucina come se facesse molto bene una cosa inelutta-bile. lo la guardavo per ore, seguivo affascinata i suoi movimenti e pensavo che era così strano che una grande amica di mia mamma potesse dedicare tanta cura e tempo a un'attività che lei considerava invece sgradevole e inutile, II ricordo più vivo che ho è quando mi lasciava macinare i chicchi di caffé con un macinino a mano di legno e, aprendo il cassettino, ne scaturiva un profumo inebriante. Non ero in realtà attratta da quello che Ginetta cucinava, anche per-ché erano cose "da grandi", o forse perché ero troppo abituata a cibi molto più semplici, ma mi piaceva e rassicurava il processo in sé: il fatto di concentrarsi su un obbiettivo preciso e vicino che si sarebbe poi esaurito nel giro di poco tempo per poi ricominciare da capo con mille varianti.

Un'altra persona indissolubilmente legata al cibo, in modo completamente diverso, è stata Ada. Da quando avevo 7 giorni di vita ai 12 anni di età ho pas-sato le mie estati a Bocca di Magra, un paese al confine tra Liguria, Toscana ed Emilia e, di conseguenza, dalla ricchezza culinaria infinita. Era allora un posto magico in cui facevamo vita selvaggia tra il mare e il fiume, sempre scalzi, con amici carissimi e in totale libertà. Per molti anni i miei affittavano una parte della casa di Ada e di suo marito Adolfo, con l'accordo che Ada ci facesse anche da mangiare; vivevamo tutti insieme, in una fantastica situazione di "cascina marina". C'era l'orto, la pergola con l'uva bianca, le conserve per l'inverno, il vino fresco di cantina, l'odore indimenticabile di umido-aceto-verdure-salumi della cucina a pian terreno e del cibo meraviglioso che Ada preparava.

Era bionda, grassa, ridanciana e godereccia con gli occhi chiari e uno spazio tra gli incisivi; mi voleva bene, mi abbracciava e baciava stringendomi al suo gran-de seno morbido che sapeva di latte e di cose buone.Tutto in lei esprimeva il godimento puro del cibo: adorava far da mangiare, nutrire gli altri le procurava gioia e mangiava lei stessa in abbondanza. Ricordo ogni piccolo particolare delle sue cozze ripiene appena rubate agli scogli, dei maccheroni al sugo, del pesce fresco, delle carote prese dall'orto, dei carciofini sott'olio, dei fiori di zucchina fritti, della torta di riso e dei mille altri piatti che gustavamo seduti sotto la per-gola, tornati dal mare cotti dal sole e dalla salsedine.

Il contrasto di quei quattro mesi estivi ogni anno con la vita un po' grigia che facevo in città era sconvolgente e i miei ricordi dei primi anni sono quasi esclu-sivamente legati a Bocca di Magra, come se il resto del tempo dovessi espiare per guadagnarmi quel paradiso.

La terza persona cara legata al cibo è stata la mia prozia Anita. È stata l'uni-ca figura di nonna che ho avuto, in mancanza di nonne vere. Anita aveva fatto da mamma a mio papà quando era piccolo, crescendolo prima a Tunisi, poi a Livorno. Di origine siciliana, aveva vissuto a lungo anche a Bari e a Cagliari. La sua cucina spaziava così in un universo mediterraneo di stili, spezie e sapori sem-pre nuovi e illimitati. Aveva la sapienza di un grande chef, conosceva gli ingre-dienti in modo perfetto e raffinato e aveva un modo di cucinare calmo e pazien-te. Preparava tutto con ordine e assemblava dosi e sapori prendendosi il suo tempo, con risultati sorprendenti.

La vedevo di rado, ma quando veniva a Milano la nostra grande cosa era far da mangiare insieme. Come ladre andavamo a fare la spesa, poi approfittavamo di una temporanea assenza di mia mamma per chiuderci in cucina e metterci al lavoro. Preparavamo cous-cous ricchissimi, torte salate gonfie e fragranti, capo-nate profumate, dolci deliziosi, godevamo della compagnia reciproca e della clandestinità della faccenda, sapendo quanto la mamma disapprovasse, il che rendeva la cosa ancora più trasgressiva e goduriosa.

Per secoli, come ancora oggi in molti casi, le donne hanno avuto questo campo d'a-zione libero per sviluppare il loro genio, la loro intelligenza, raffinatezza, sensualità, affetto e qualunque altra espressione che veniva loro negata nei settori riservati solo agli uomini. Non avendo guerre da vincere, confini da superare, ma solo il biso-gno di manifestare i propri sentimenti e le proprie emozioni, hanno usato il posto dal quale nessuno poteva emarginarle, ma che era anzi il "loro": la cucina. Si dice: "Le cuoche possono essere donne, ma i grandi chef sono uomini". Certo, perché agli uomini non basterà mai far bene da mangiare e far godere del loro cibo chi gli sta accanto e gli vuole bene. Se si mettono a cucinare devono diventare i migliori, far parlare di sé nei libri e nei salotti, conquistarsi una vetta e delle stelle.

Ma questo ciclo infinito, indispensabile e affascinante, lo dobbiamo percorrere tutti: dobbiamo mangiare per sopravvivere, ogni giorno, più volte al giorno. È un giro completo, che si ripete: si cucina, si mangia e poco dopo si ricomincia. È una delle poche attività che stimola tutti i cinque sensi; ci si può mettere tanto o poco, farla tanto per fare o con precisione maniacale, odiandola o con amore, rovinandosi o facendosi del bene. Sono scelte individuali, ma se ce ne dobbiamo occupare, tanto vale divertirsi, e considerarlo uno dei piaceri della vita.

Credo che figure come quelle che ho incontrato nella mia infanzia siano sempre più rare. Sono persone che più che insegnarti a far da mangiare ti fanno entrare in un mondo meraviglioso di sapori, odori e consistenze.

Un tempo le bambine imparavano tutto questo dalle mamme e dalle nonne, e i maschi non lo imparavano affatto perché ci sarebbe sempre stata una donna che le avrebbe fatte per loro. Oggi le mamme lavorano, arrivano a casa tardi, fanno da mangiare molto velocemente e con i loro figli fanno altro; le nonne, che magari avrebbero tempo, non sì sa dove si nascondano. I ragazzi lasciano la casa materna il più tardi possibile, e un piatto caldo certo non glielo nega nes-suno. Ma sarebbe una bella soddisfazione se riuscissero a cucinare da soli! Sono le piccole grandi conquiste della vita: come allacciarsi le scarpe, andare a scuola da soli, imparare a leggere e scrivere, guidare la macchina.

Allora non ci rimangono che i libri per imparare a cucinare. Ma ci sono cose che troppo spesso i libri di cucina danno per scontato: per esempio come cuocere gli spaghetti o come rompere un uovo. Se non l'hai mai fatto può essere un problema. Se qualcuno te lo spiega forse puoi risparmiare ore a cercare di recuperare i pezzettini di guscio smaciullato che sfuggono in mezzo a un uovo bavoso!

E poi c'è quasi sempre quel linguaggio da "addetti ai lavori" che respinge qualsiasi persona normale si metta a eseguire una ricetta. Nel tempo per me cucinare è diventato una specie di autoterapia: quando sono depressa, scocciata, quando ho troppo da fare, se sono in ritardo a con-segnare un lavoro, se mi sento sola, se c'è troppa gente, se sono preoccupata, vado in cucina e faccio qualcosa da mangiare. Odio ammetterlo, ma nutrire il prossimo mi gratifica molto. Credo che sia un istinto primordiale!

Non sono una cuoca particolarmente brava, detesto stare in cucina troppo tempo, cucino solo piatti che hanno cotture veloci e preferisco usare ingredienti naturali, d'origine biologica e di prima qualità.

Non riesco mai a eseguire una ricetta esattamente com'è scritta, ci metto del mio e non sempre con risultati esaltanti. Non ho mai preparato un soufflé, non so fare la pasta sfoglia, la lepre in salmì, il brasato, la Sachertorte e mille altri classici della cucina. Ma so fare bene la pizza, le tagliatelle fatte in casa, gli gnocchi, il risotto, il cous cous, il pollo alle mandor-le, le crostate, le polpette, le cotolette, i pancakes e altro. Una cosa ho capito: si può imparare a fare quasi tutto, basta averne voglia.

Adesso che ho detto quali sono le mie carenze in cucina mi sento più libera! Perciò non aspettatevi fuochi d'artificio: la mia intenzione è cercare di spie-gare le cose elementari per incominciare a cucinare. Quello che "avreste sem-pre voluto sapere ma non avete mai osato chiedere", come cavarsela di fronte alla fame improvvisa di un gruppo di amici o di figli adolescenti, far colpo su una ragazza che invitate a casa per la prima volta o per passare una domenica pomeriggio divertente con un amico.Vorrei farvi venire voglia di inventare, sco-prire e divertirvi con il cibo.

Naturalmente ho sperimentato direttamente tutte le ricette di questo libro, perché non me la sentirei di darvi indicazioni su cose di cui ignoro il risultato! Spesso non indico le quantità esatte che ci vogliono per la preparazione del piatto, perché credo che sia più utile che impariate a dosare da soli, in base al numero di persone che avete a tavola. lo tra l'altro non peso mai niente e non ho neanche una bilancia in casa. Quindi vi indicherò le dosi in misure facili da seguire: tazze, cucchiai, bicchieri, pizzichi ecc.

Un paio di cose da segnalare 

 

Se scegliete ingredienti di alta qualità, vi basterà una lavorazione molto semplice per-ché il piatto risulti buono. Non risparmiate mai sulla qualità! lo credo che sia meglio cercare di usare prodotti coltivati biologicamente: il loro sapore è più intenso e autentico e sarete tranquilli di non mangiare troppe sostanze chimiche che non fanno sicuramente bene. Per quanto riguarda le carni, preferite quelle di animali alle-vati in modo naturale in zone controllate rigorosamente e periodicamente.

C'è parecchia speculazione sul "biologico" perché è molto ricercato e costa di più, ma oggi, se si è un po' attenti, si possono comprare cibi naturali e di buona qua-lità, certificati e garantiti, anche nei supermercati e nei nlercati rionali. Preferite la frut-ta e la verdura di stagione: i prodotti fuori stagione o esotici devo essere conserva-ti più a lungo o devono fare lunghi viaggi e sono perciò trattati con più sostanze dan-nose, oltre a essere meno saporiti. Piuttosto che mangiare un mango che sa di rapa, meglio una pesca sugosa che sa d'estate.

Se dovete cucinare ogni giorno, fate in modo di divertirvi, variate il menu il più possibile, inventate piatti nuovi, fate degli esperimenti, imparate a cucinare cose che hanno bisogno di cotture brevi, cercate di preparare "piatti unici" magari con tanti piccoli contorni. Mangiare diventa più divertente e voi non dovrete controllare cot-ture per ore, alzarvi da tavola di continuo e trasformare un piacere in un faticoso dovere. Infine, quando parlo di olio, intendo solo e sempre olio extravergine di oliva. lo lo uso anche per friggere, mi adeguo a quello di semi di girasole solo se devo frig-gere grandi quantità (cosa che non mi capita praticamente mai) perché a buttare tanto olio buono mi piange il cuore. Per tutti gli altri usi, l'olio extra vergine d'oliva è sempre il migliore. Con il tempo e l'esperienza imparerete anche le differenze tra i vari tipi di olio extravergine: ogni regione d'Italia ne produce uno con sapore e inten-sità diversi e ogni produttore fa un olio differente. È un intero mondo da scoprire e apprezzare! Non usate mai un olio di cui non sapete la provenienza: consideratelo come il vino. Come non berreste mai un vinaccio d'origine sconosciuta e da quat-tro soldi (almeno spero), così dovrete fare con l'olio. In più, dato che l'olio viene usato come condimento, un cattivo olio guasterebbe tutto il sapore e la qualità del piatto, e più il piatto è semplice più ogni elemento che lo compone è importante.